
La letteratura scientifica “boccia” le classifiche tra ospedali. E da Agenas viene il monito a non confondere gli esiti di attività con presunte “maglie rosa” della sanità italiana
di Cristina Corbetta
All’inizio fu la Lorenzin, che nel settembre del 2013 in qualità di ministro della Salute, fece una dichiarazione al tempo stesso insolita e avvincente: “Voglio creare il Tripadvisor degli ospedali Italiani -dice il Ministro. E ancora- Non vedo perché i risultati del lavoro degli ospedali debbano rimanere segreti. I cittadini potranno esprimere pareri su aspetti come l’accoglienza del personale, la pulizia dell’ospedale, l’umanizzazione delle cure”. Poco più di un mese dopo, e precisamente il 30 ottobre 2013, nasce “Dovecomemicuro, “un progetto -come si legge sul sito realizzato e promosso da un gruppo di esperti e ricercatori che lavorano nel campo della sanità, consapevoli della necessità dei cittadini di avere informazioni migliori per poter scegliere i servizi sanitari cui rivolgersi”. Insomma, una guida “per scegliere l’ospedale migliore”. Ma l’ospedale migliore può venire fuori da una classifica su un sito internet, o magari da quella recentemente pubblicata sulla prestigiosa rivista Newsweek? È opportuno che i cittadini consultino queste “classifiche” per scegliere come e dove curarsi? Insomma, ci si può fidare? La classifica di Newsweek è solo l’ultima di una serie di “maglie rosa” assegnate a strutture ospedaliere e a singole specialità, con l’obiettivo dichiarato di offrire ai cittadini una reale possibilità di valutazione e scelta delle strutture in cui farsi curare. Ma la domanda centrale è: gli indicatori utilizzati per queste classifiche sono davvero quelli più adatti a rappresentare la complessità di un’offerta sanitaria e quindi a “indirizzare” la scelta del cittadino? E soprattutto, la comunicazione di questi risultati è fatta nel modo corretto o privilegia un semplicistico aspetto di “gara” tra strutture sanitarie?
Già nel 2018 Altroconsumo sottolineava il fatto che in molti siti che valutano le strutture sanitarie, spesso chi lascia un giudizio potrebbe non essere neanche stato in
quell’ospedale, e quindi il “tripadvisor” che ne esce è quanto meno inutile e in qualche caso addirittura fuorviante. Per quanto riguarda Agenas, il coordinatore delle attività del Programma Nazionale Esiti, Giovanni Baglio, aveva già preso le distanze nel 2013 non solo dalle classifiche stilate sulla base dei giudizi dei pazienti, ma anche sulle dalle classifiche “facili” offerte da enti vari e riportate su internet. “È ben noto e documentato – spiegava Baglio in un articolo pubblicato il 13 settembre 2013 su Salute Internazionale – il problema della sottonotifica delle comorbosità nei dati del Sistema informativo ospedaliero, che impedisce un pieno controllo della gravità clinica dei pazienti. Può accadere, dunque, che una struttura appaia più performante di altre, per la sola ragione di trattare una casistica più “leggera”.
“Già nel 2006 la letteratura scientifica inviata alla prudenza e sottolineava il pericolo di una non attenta analisi dei dati”
La pensa ancora così il coordinatore del Pne? “La penso esattamente così anche oggi, e aggiungerei che, oltre alla sottonotifica delle comorbilità spesso mancano informazioni sulle condizioni cliniche di base del paziente, e questo è un altro fattore che compromette la validità di una presunta classifica tra ospedali”. Insomma secondo Baglio le classifiche “lasciano il tempo che trovano”, e ben altre sono le strade che i pazienti devono percorrere se vogliono scegliere una struttura sanitaria, come l’acquisizione di informazioni dettagliate da fonti ufficiali e il confronto con il proprio medico curante. Prudenza raccomanda anche l’Airc, l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, che invita a un’attenta analisi dei dati: “Un esempio per tutti, facilmente comprensibile: se in un reparto ospedaliero la mortalità è più alta che in un altro, le ragioni possono essere due. Può darsi che sappiano curare meno bene la patologia in questione o, viceversa, che siano talmente bravi da raccogliere tutti i casi più difficili, quelli che altri non vogliono più curare. Per questo è necessario “pesare” il risultato, cosa che non è semplice”.
Quindi, se sono così dipendenti da chi li predispone in termini di tecniche statistiche adottate, criteri di inclusione ed esclusione, e valori di riferimento, vien da dire che forse le graduatorie non sono così utili. O quanto meno non servono per attribuire primati. Peraltro giudizi e graduatorie sono dichiaratamente estranei agli obiettivi del Piano Nazionale Esiti, come conferma lo stesso Baglio, secondo cui i risultati di Pne, hanno l’obiettivo di supportare programmi di auditing clinico ed organizzativo e non costituiscono in alcun modo giudizi, tabelle, graduatorie”.
Tanto è vero che tra le attività di sviluppo del Pne c’è lo studio di più efficaci modalità di presentazione dei risultati, da intendere come analisi della variabilità dei fenomeni e come mappa delle criticità. “I dati del Pne -spiega Baglio- vanno considerati come una sorta di dispositivo di screening: facciamo un test diagnostico della prestazione, applichiamo una serie di indicatori che ne delineano le possibili criticità, attiviamo sistemi di verifica come gli audit, e quindi si passa alla diagnosi. Questo non ha nulla a che vedere con certe classifiche che si vedono su siti internet”. È vero però che i dati del Pne sono di difficile lettura per un cittadino comune, e che il “Portale della trasparenza” attivo sul sito Agenas, destinato a una lettura più semplice da parte dei cittadini, è partito da pochi mesi, e il gran numero di informazioni che contiene non è ancora noto al grande pubblico e meriterebbe un’ulteriore pubblicizzazione.
“L’unico parametro veramente utile da consultare sembra essere il volume di casi visti per ciascuna patologia”
Che cosa rimane, quindi, nelle mani del comune cittadino per orientarsi di fronte all’offerta sanitaria, e per decidere dove farsi curare? L’unico parametro veramente utile da consultare sembra essere il volume di casi visti per ciascuna patologia, specialmente se si tratta di interventi chirurgici. Facciamo l’esempio del tumore al seno: le cure possono cambiare drasticamente in base al tipo di recettori presenti sulla cellula o all’assetto genetico, e solo un centro che vede molti tumori al seno avrà l’esperienza necessaria per trattare al meglio ciascun sottotipo. Ma anche questo criterio non risulta valido, per esempio, nel caso dei parti cesarei, il cui numero maggiore non significa di per sé maggior adeguatezza dell’assistenza al parto. Tanto è vero che già il Dm 70/2015 ha fissato la quota massima di tagli cesarei primari al 25% per le maternità con più di mille parti annui e al 15% per quelle con volumi inferiori.
E quindi, cosa concludere? Che occorre massima cautela, (e qui anche i Media sono chiamati in causa) nel parlare di “classifiche”. Che occorre massima attenzione alla comunicazione oltre che alla raccolta dati e all’analisi. E naturalmente che è necessaria una continua ricerca sui metodi di indagine e di statistica; con la speranza che dal 2006, anno in cui è apparso l’articolo di Gianluca Di Tanna (vedi box), su quest’ultimo punto si siano fatti significativi passi avanti.
Attenzione, cattiva informazione in agguato
La comunicazione, appunto: già nel 2006, Gian Luca Di Tanna, Luca Cisbani, Roberto Grilli dell’Agenzia sanitaria regionale Emilia-Romagna pubblicavano (Epidemiol Prev 2006) uno studio dal titolo Public reporting on individual hospitals’ quality: the risk of misinformation, ovvero “Segnalare ai cittadini la qualità degli ospedali: il rischio della cattiva informazione”. Nello studio si dimostrava come sulla base di due casi ritenuti “esemplari” il modo in cui viene affrontato il problema della comunicazione al pubblico di informazioni sulla qualità dei servizi sia ancora largamente inadeguato; nel primo dei casi citati, infatti, si evidenziavano i problemi della rappresentazione delle performance con semplici league tables, dimostrando (grazie al metodo Markov Chain Monte Carlo) che il ricorso alle classifiche, pur basate su un corretto indicatore di esito, è un esercizio potenzialmente fuorviante. Nel secondo caso, si dimostra l’inaffidabilità di un indice reputazionale utilizzato come indicatore della qualità dei servizi. Insomma, già nel 2006 la letteratura scientifica inviata alla prudenza e sottolineava il pericolo di una non attenta analisi dei dati; ma soprattutto segnalava il pericolo di un’informazione superficiale ai cittadini.
Public reporting, come funziona
Il public reporting, o rendicontazione pubblica, raggruppa il concetto di rendere informazioni normalmente private o difficilmente accessibili pienamente fruibili al pubblico. Il public reporting viene intrapreso da governi o enti statali in merito ad entità da loro solitamente controllate o su cui viene svolta attività di vigilanza. I paesi dove il Public Reporting ha avuto un ruolo significativo nell’ambito dei vari sistemi sanitari sono soprattutto gli USA e l’Inghilterra ma anche in Germania e in Olanda si è sviluppata una discreta sensibilità nei confronti dell’utilità della pubblicazione delle performance assistenziali e della promozione dell’empowerment dei cittadini e dei pazienti. In Italia nel 1993 nascono alcuni progetti in cui viene approfondito il tema della misurazione degli indicatori di performance ospedaliera e la possibilità di avviare un’analisi a livello nazionale che riesca a evidenziare e verificare casi di rischio sanitario e a intervenire ove necessario.
In quest’ottica, l’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) sviluppa il progetto Piano Nazionale Esiti, a disposizione delle Regioni, delle aziende e dei professionisti per il miglioramento continuo del Sistema Sanitario Nazionale. Per il futuro, l’intento di Agenas è quello di “proseguire con le attività di monitoraggio e valutazione, anche nella prospettiva di sostenere la riorganizzazione del Ssn dopo la pandemia, facendo emergere e mettendo a sistema le esperienze virtuose, per contribuire alla diffusione delle buone prassi esistenti e orientare il cambiamento”.