
Sono qui, in questa antica basilica che molto ho ammirato e mai pienamente amato. Silenzi e penombre delle chiese romaniche e la composta armonia di quelle rinascimentali mi sembravano luoghi più naturali per i pensieri dello spirito
di Giovanni Monchiero*
Santa Maria in Trastevere è un crogiolo di contrasti. Le due file di colonne, ineguali nel colore della pietra e nelle dimensioni, sottratte alle rovine di Roma imperiale, vissute nel medioevo come cave di preziosi materiali edili; il ricco pavimento cosmatesco; l’imponente ciborio ottocentesco, impreziosito dal recupero di marmi antichi; i grandiosi mosaici medievali dell’abside, con una originale iconografia della Assunta; gli affreschi manieristici sparsi qua e là; una venerata icona del VII secolo; un crocifisso ligneo del XV; su tutto, lo sfarzoso soffitto barocco, scintillante di ori e di argenti. Troppo, per un luogo solo.
Ma oggi sono qui per la cerimonia funebre di un amico. Le nostre vite professionali si sono a lungo intrecciate e si alza la marea dei ricordi. La solennità del rito porta a riflettere sulla vita ed anche il luogo dà il suo contributo. I contrasti di epoche e di stili mi appaiono, in questo momento, come l’impronta della mano della storia, che ha operato nei secoli, fra ascese e rovine, guerre e periodi di pace, e accompagnato i cambiamenti delle condizioni di vita, delle sensibilità, dei valori e dei pensieri. Nulla aiuta a conciliarci con la morte meglio dell’evidenza dello scorrere del tempo.
Le nostre vite, caro Francesco, sono una goccia nell’oceano della storia. Come per ogni uomo, troppo brevi per dare compimento a tutte le nostre speranze. Ma questi anni di vita vissuta siamo noi, le cose fatte e le omissioni, i talenti e i limiti, i sogni e la realtà: anche noi prodotti del tempo.
Voglio ricordarti com’eri. Nato a Roma da antica famiglia della nobiltà sabauda trasferitasi nella nuova capitale al seguito della dinastia, da sempre servita nell’esercito e in alte funzioni amministrative. Un tuo antenato – mi confidasti – era giovane ufficiale nella battaglia dell’Assietta, nella memoria collettiva di noi piemontesi qualcosa di simile alle Termopili. Epico scontro in cui un piccolo presidio seppe resistere contro un vero esercito, guadagnandosi l’ammirazione del nemico.
Da allora noi piemontesi siamo detti “i bogia nen”, quelli che non si muovono, motto che non si riferisce a lentezza o pigrizia ma alla estrema fermezza davanti al dovere. Figlioli, di qui non ci si muove – disse, ovviamente in dialetto, lingua madre ancora ai miei tempi, il comandante: parole destinate a rimanere nella storia.
In te non c’era nulla di militaresco. Intelligente, sensibile, aperto ai temi del sociale, formato alla cultura di sinistra, generoso fino a lavorare in Africa e in Sud-America a progetti di cooperazione internazionale. Ma non ci si sottrae del tutto alle radici: disponibilità e cortesia non bastavano a celare l’innata fermezza.
Ti sapevi imporre: con garbo, con eleganza, con argomenti fondati sulla competenza ed esposti con logica, con la parola colta e sorvegliata. Ascoltavi tutti, senza fretta di concludere, ma alla fine avevi ragione tu. Per chi svolge un ruolo di comando, la fermezza fa parte del dovere.
Nel linguaggio di oggi sei stato un manager, un grande manager della nostra sanità. Abbiamo vissuto insieme gli anni dell’entusiasmo, della passione per il nuovo ruolo – così diverso da quelli tradizionali della dirigenza pubblica – della fiducia nell’organizzazione aziendale. Sei stato fra i fondatori della federazione delle Aziende Sanitarie, che hai, in più mandati, brillantemente presieduto.
Nelle nostre discussioni, al mio ricorrente pessimismo opponevi la convinzione che il management sanitario fosse chiamato a garantire, comunque, la funzionalità del sistema, minata dal sottofinanziamento, dalle contorsioni della politica, dai molti corporativismi, dal carico di aspettative dei cittadini. E che ci doveva riuscire.
Quando si scriverà la storia del Servizio Sanitario Nazionale – mi auguro trattando di cosa viva e non di un felice momento del passato – dalle poche righe che l’autore vorrà dedicare alla Fiaso non potrà non emergere la passione con la quale hai rafforzato la comunità delle aziende e diffuso al loro interno la cultura manageriale.
Grazie Francesco, per quello che sei stato, per come lo hai vissuto. Vorrei dirti arrivederci, ma temo che ci mancherà l’occasione.
*Editorialista Panorama della Sanità