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A tu per tu con Valeria Elisa Contarino

Valeria Elisa Contarini
Abbiamo chiesto al presidente Arsi (Associazione ricercatori in sanità) Valeria Elisa Contarino, di aiutarci a fare il punto sullo stato di salute della ricerca in Italia. Il Pnrr? “Il più grande paradosso di sempre”

La ricerca. Fiore all’occhiello e punto di vanto del nostro Paese. Tutti la vogliono, ma sono anni che stiamo qui a discutere di quel che “si dovrebbe fare” (ma non si può). Partiamo dal principio: quale lo stato di salute della ricerca in Italia?
La ricerca sanitaria in Italia vive una malattia ormai cronica causata da politiche del lavoro inefficaci, messe in piedi dagli scorsi esecutivi e non risolti dall’attuale nemmeno in occasione dell’ultima legge di bilancio. Le politiche degli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (Irccs) pubblici e degli Istituti Zooprofilattici Sperimentali (Izs) sono infatti basate sul concetto che la ricerca debba essere precaria per definizione, interpretando erroneamente una visione di sistema competitivo. L’inefficacia è dimostrata dall’importante fuga del personale storico a fronte di valutazioni positive ricevute dagli Istituti nel corso degli anni. Personale quindi produttivo che, dopo decenni di lavoro per migliorare il processo diagnostico nella malattia di Alzheimer o le terapie per i tumori infantili, abbandona gli Istituti per mancanza di riconoscimento di ruolo, prospettive di crescita e per inadeguato riconoscimento salariale. Un sistema fondato su neolaureati in lotta l’uno contro l’altro per guadagnarsi qualche anno in più di contratto non può che portare alla pubblicazione quanto più veloce possibile di articoli che aumentano sì gli indici bibliometrici del singolo ma che rimangono carta straccia per impatto sulla sanità pubblica. Cominciamo a chiamarla “innovazione in Sanità” o “diagnosi e terapie innovative”, forse sarà più facile comprendere come sia necessario attrarre e trattenere professionisti esperti e supportarne la collaborazione. L’innovazione in sanità ha bisogno di gruppi competenti, solidi, collaborativi e orientati al risultato sul paziente.

Vorrei… ma non posso. Triste mantra che ascoltiamo da anni. Quali i principali ostacoli del sistema?
I principali ostacoli risiedono nella difficoltà di definire competenze e ruoli chiari nelle Istituzioni, dinamica che da decenni ha permesso un triste passaggio di patata bollente tra Ministero della Salute, Mef e Regioni senza riuscire a creare una risoluzione congiunta. Avendo però visto che in tanti altri casi, come ad esempio le “stabilizzazioni covid” dei sanitari con 18 mesi di servizio, tale lavoro congiunto è stato portato a termine con risultati ben più mastodontici di quel che servirebbe alla ricerca sanitaria pubblica (parliamo di 50000 sanitari stabilizzati contro la richiesta di 1100-1300 storici della ricerca), crediamo non vi sia incapacità quanto mancanza di volontà. D’altronde, i funzionari ministeriali della ricerca sanitaria hanno di recente confermato pubblicamente la volontà di mantenere il personale precario, anche quello storico con 35 anni di servizio alle spalle. Non capiamo però come questo sia compatibile con le visioni del Ministro Schillaci e del Sottosegretario alla Salute Gemmato che si sono invece dimostrati intenzionati a trovare una soluzione per stabilizzare il personale su cui l’Italia ha investito per decenni. Non comprendiamo nemmeno come la visione dei funzionari del Ministero della Salute sia compatibile con la Direttiva Europea 1999/70 Clausola 5 anti abuso di contratti a termine.

I soldi però adesso ci sono (nel Pnrr). Come giudicate l’impianto normativo? Si è fatto abbastanza?
La ricerca sanitaria pubblica sta vivendo col Pnrr il più grande paradosso di sempre. Il paradosso consiste nell’aver definito, all’interno della gigantesca manovra di investimento e riforma chiamata Pnrr, un obiettivo per la ricerca sanitaria pubblica a costo zero. A 20 anni dal decreto legislativo di disciplina degli Irccs, il Pnrr aveva infatti finalmente previsto la riorganizzazione di tali Istituti. Peccato che non sia stato dedicato un solo euro al relativo Decreto legislativo di Riordino Irccs. Un paradosso talmente assurdo che farebbe ridere se solo questo non avesse fatto scappare dal sistema Irccs-Izs centinaia di professionisti altamente specializzati causando un danno immenso all’innovazione della sanità pubblica italiana.
Inoltre, mentre il mondo scientifico internazionale va verso l’open-access e la condivisione dei dati (approccio che ci ha permesso di trovare soluzioni efficaci durante la pandemia) il Ministero della Salute continua ad inseguire in modo anacronistico un sistema di valutazione della ricerca basato su indici bibliometrici e citazionali. L’impianto della ricerca sanitaria italiana, ad oggi, risulta in totale controtendenza anche con le linee-guida internazionali in materia di valutazione della ricerca. Le raccontiamo un aneddoto a riguardo: se Peter Higgs, premio Nobel per la fisica nel 2013,  fosse stato valutato con i criteri che il Ministero della Salute utilizza per valutare i ricercatori sanitari, probabilmente sarebbe stato licenziato in itinere. D’altra parte questo sistema di valutazione della ricerca avrebbe invece premiato Andrew Wakefield, noto per la frode scientifica relativa al legame tra il vaccino del morbillo e l’insorgenza di autismo nei bambini. Il sistema di valutazione della ricerca basato su indici bibliometrici e citazionali è stato confermato nel Decreto riordino Irccs, obiettivo Pnrr licenziato dal Governo lo scorso Dicembre. La vediamo come un’occasione per rafforzare la traslazionalità della ricerca sanitaria ossia il raggiungimento di diagnosi e terapie innovative per il paziente andata in fumo.

Capitolo “La fuga dei cervelli”. La combattiamo da anni, ma all’atto pratico, siamo riusciti a rendere maggiormente attrattivo rimanere?
Rispondo tramite due numeri estratti dal censimento dello scorso anno sul personale Irccs-Izs: abbandono di oltre il 25% personale storico in soli due anni, 0% i cervelli richiamati dall’estero. Un sistema insostenibile. D’altronde, lei tornerebbe in patria dal Mit di Boston, o dall’Istituto Pascal di Parigi, per andare a lavorare nel comparto sanitario, con un tempo determinato che, all’apice della carriera, viene pagato 1800 euro al mese? Quali le principali motivazioni che un giovane ricercatore si trova a ponderare?
Il rispetto per il lavoro dei professionisti: nella ricerca sanitaria pubblica italiana si respira ancora troppa aria di feudalesimo e troppo poca di innovazione sanitaria. Le prospettive: “anche dovessi riuscire ad introdurre nella sanità pubblica italiana l’innovazione più efficace, che prospettive mi offrirebbe l’Istituto oltre il contratto da simil-tecnico?”. La retribuzione: un contratto simile a quello da tecnico sanitario attribuito al personale di ricerca spesso con titolo post laurea non è in linea con gli stipendi di farmacisti, biologi, ingegneri del mondo privato e, ancor più critico, con gli stipendi dei vicini di scrivania dello stesso Irccs-Izs assunti come dirigenti biologi, farmacisti ecc. impiegati nell’assistenza.

Nota dolente, tra le tante, il precariato. Un fenomeno diffuso, ma che sembra colpire in particolare i ricercatori che spesso si trovano a dover scegliere tra le loro carriere e il farsi una famiglia. Un segno di assoluta arretratezza sociale, culturale e morale. Si intravedono soluzioni?
I funzionari ministeriali vedono nella precarietà una risorsa e non un illecito. Non vedono dunque nessun bisogno di trovare soluzioni. Nonostante gli anni di sensibilizzazione e lotta per combattere questo fenomeno, tutte le proposte risolutive arrivate ai tavoli governativi sono infatti state ignorate. Le speranze sono calate drasticamente vedendo che nemmeno nel Decreto Legislativo di Riordino Irccs si è deciso di sistemare questa vergogna. Quest’anno, quindi, l’Associazione Ricercatori Sanità – Italia (Arsi) ha deciso di supportare le azioni giuridiche che i sindacati hanno organizzato in tutela del personale della ricerca pubblica Irccs-Izs. A causa delle politiche del lavoro scellerate che il Ministero della Salute prevede per la ricerca sanitaria pubblica, i cittadini  pagheranno con le loro tasse i rimborsi per le azioni legali dei lavoratori invece di finanziare le innovazioni in sanità. Siamo molto amareggiati.

Perché all’estero è più facile?
Perché vi è una cultura sul diritto del lavoro più solida. Perché c’è più offerta e meno paura per i lavoratori. Vede, se si vuole giocare alla precarietà in eterno, bisogna strapagare i professionisti per evitare che poi si rivolgano ai tribunali per chiedere giustizia. Invece si vuole la manodopera d’eccellenza a basso costo.

Se vi fosse dato decidere quale sarebbe il primo intervento che proporreste per migliorare lo stato dell’arte?
Il primo intervento sarebbe la stabilizzazione del personale storico di ricerca sanitaria per eliminare il più grande abuso commesso negli scorsi tre decenni che è, oggi, una bomba ad orologeria per le finanze pubbliche. Questo, insieme al superamento dell’inquadramento nei soli contratti da simil-tecnico sanitario valorizzando competenze e titoli del personale, permetterebbe di costruire un sistema solido e sostenibile da cui ripartire per rafforzare l’integrazione tra ricerca e assistenza e reindirizzare il sistema di valutazione della ricerca sul suo impatto clinico.

 

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