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Ospedali troppo vecchi, alcuni hanno anche 800 anni

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Antonio D’Amore, vicepresidente della Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere (Fiaso) e direttore generale dell’Ospedale Cardarelli di Napoli, durante i lavori di uno dei tavoli tematici della seconda edizione dell’Open Meeting dei Grandi Ospedali Italiani, svoltasi il 25-26 maggio a Roma

“Il collegamento tra università e ospedale è molto importante: consente una stretta simbiosi tra aspetti assistenziali, di ricerca, clinici e didattici. E tutto questo rappresenta un punto di forza per le attività di sperimentazione che si svolgono”. Lo ha affermato Nathan Levialdi Ghiron, Rettore dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, all’evento nazionale Grandi Ospedali, organizzata dagli ospedali Sant’Andrea di Roma e Policlinico Tor Vergata, svoltosi nei giorni scorsi a Roma. “Mettendo a sistema le competenze di grandi strutture ospedaliere, la possibilità di realizzare dei benchmark, da offrire anche alle altre strutture sul territorio, rappresenta un aspetto importante di questi eventi. La capacità di queste strutture di sperimentare nuove soluzioni tecnologicamente avanzate è un valore da mettere a sistema e condividere con strutture più piccole che non avrebbero queste possibilità – aggiunge il Rettore -. La capacità che hanno le grandi realtà, anche di fare open innovation coinvolgendo una serie di stakeholder dal mondo esterno, permette una spinta innovativa in più settori. Come ad esempio nei dispositivi medici: nell’ambito sanitario possono avere ampia gamma di possibilità di sperimentazione ma poi vanno ad alimentare anche altre filiere, portando benefici a tutta la collettività”.

Sul gender gap in Sanità ha parlato la direttrice dell’Ausl di Ferrara Calamai  “Il gender gap continua a pesare. In Italia le donne sono circa il 68% del personale all’interno del Sistema sanitario nazionale, ma guadagnano in media il 24% in meno rispetto ai colleghi uomini.” “Nell’ultima edizione del Global Gender Gap report, il World Economic Forum evidenzia che per ottenere la parità di genere, a livello globale, serviranno ancora 132 anni e che i progressi verso la riduzione del divario di genere sono in stallo nella maggior parte dei paesi -ricorda la direttrice Monica Calamai, moderatrice del tavolo dedicato a “Le politiche del Grande Ospedale per la medicina di genere e la riduzione del gender gap”- Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità le donne rappresentano il 70% della forza lavoro nel campo della salute ma solo il 25% è leader. Insieme al salario, un altro indicatore che sottolinea la diseguaglianza di genere è la tipologia del lavoro con una maggioranza di lavoratrici part time donne: il 32,4% delle donne italiane occupate lavora part-time contro solo l’8% degli uomini. Ulteriori dati dimostrano che il tempo recuperato sia dedicato alla cura della casa e al caregiving familiare, le donne si fanno carico del 74% del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura”.

“Quali proposte per ridurre il gender gap? Nel 2022 ne sono state presentate una serie al Ministero della Salute -spiega Calamai-. Tra cui orari flessibili e personalizzati, smart working, sviluppo delle forme diversificate di part time, ma anche esonero da turni notturni e nei weekend per le lavoratrici madri e/o per chi si prende cura degli anziani,   priorità d’impiego flessibile per i genitori con figli minori di 12 anni, aumento e incentivazione del congedo di paternità, asilo aziendale a tariffe agevolate”.

“La chiave di volta è potenziare l’accoglienza progettandola sulla persona. L’accoglienza si deve articolare in tanti percorsi di accesso, non solo per i pazienti ma anche per familiari, visitatori, caregiver, distinguendo anche tra adulti e bambini e differenziando tra accoglienza sanitaria, amministrativa, relazionale e multimediale”. È emerso dalla tavola rotonda che ha visto come mediatore il direttore generale dell’Azienda ospedaliero-universitaria Senese, Antonio Barretta. “Nei grandi ospedali è necessario potenziare il public engagement, puntando su identità, cultura organizzativa, condivisione e dialogo e potenziando le logiche partecipative, soprattutto con il coinvolgimento delle associazioni di volontariato e tutela che rappresentano i pazienti e che collaborano con gli ospedali, per migliorare anche la fruizione dei servizi -sottolinea Barretta, che ha moderato la tavola rotonda dal titolo “Co-progettazione con i pazienti: comunicazione interna ed esterna nei grandi ospedali e informazione per la salute”-. Una buona comunicazione deve essere in grado di ascoltare: attraverso le esperienze e i suggerimenti dei nostri interlocutori possiamo apprendere informazioni importanti. L’Aou Senese, ad esempio, ha adottato nel 2022 un progetto aziendale che istituzionalizza il coinvolgimento dei pazienti e delle organizzazioni di volontariato nei percorsi di cura e nei processi di gestione e governo aziendali con l’obiettivo di co-produrre valore pubblico”. “La comunicazione, sia interna che esterna, per essere efficace, deve essere strategica, integrata e condivisa -spiega il direttore dell’Aou Senese-. Strategica in quanto progettata e pianificata; integrata, perché dobbiamo essere in grado di utilizzare le potenzialità e le peculiarità dei diversi strumenti e mezzi di comunicazione; condivisa perché deve coinvolgere i professionisti e gli stakeholders nella progettazione e gestione dei flussi informativi e delle attività di comunicazione. Una buona comunicazione consente anche di migliorare e rafforzare il senso di appartenenza verso l’istituzione e di sentirsi parte di una squadra con obiettivi comuni. La comunicazione istituzionale deve essere etica per natura perché orientata ad essere trasparente, affidabile, attendibile, responsabile. Le informazioni trasmesse devono osservare sempre i criteri di verità, pertinenza e continenza, nel rispetto dell’interesse pubblico e del bene comune. Una comunicazione chiara, efficace, tempestiva e trasparente, anche in caso di situazioni di crisi, di emergenza o di urgenza”.

La rettrice dell’Università La Sapienza Antonella Polimeni ha sottolineato l’importanza della contaminazione di idee dove diventa essenziale mettere in rete conoscenze e competenze”“La sfida per una formazione universitaria attuale è quella di tenersi al passo con le innovazioni, per questo la comunicazione rivolta ai nostri studenti deve seguire nuove modalità formative e interattive”. “In un momento storico in cui è fondamentale la contaminazione di idee, diventa essenziale mettere in rete conoscenze e competenze -sottolinea la rettrice Polimeni-. Un evento come questo dei Grandi ospedali rappresenta per tutti i professionisti, ma anche per i professionisti universitari che si occupano di ricerca, didattica e assistenza, un’occasione di scambio e osmosi culturale. Non solo un confronto mono specialistico su una tematica ma un tavolo nel quale si integrano diverse visioni. La scelta di un format laboratoriale dove i professionisti, che hanno diverse estrazioni culturali, si confrontano su un tema declinandolo con sfaccettature cliniche, gestionali, operative, commerciali, permette un’analisi multidimensionale. Modelli di avanguardia che devono essere attuati, evoluzioni tecnologiche che possono essere dirompenti ma si devono integrare ed evolvere nell’ambito di una complessità nuova che deve spingere verso l’innovazione. E, sicuramente, da questo punto di vista l’università può dare il suo contributo”.

Ha parlato di ospedali troppo vecchi Antonio D’Amore, vicepresidente della Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere (Fiaso) e direttore generale dell’Ospedale Cardarelli di Napoli. “Il 30% degli ospedali italiani è stato costruito fra il 1941 e il 1970; il 20% dal 1901 al 1940; il 6% dal 1801 al 1900; il 10% prima del 1800. Per combattere le infezioni ospedaliere abbiamo bisogno di ripensare gli spazi, i medici lavorano in ambienti inadeguati: ci sono colleghi che lavorano in strutture realizzate 800 anni fa”.

“Chi lavora nei grandi ospedali è chiamato ogni giorno a vivere le sfide di un presente che richiede competenza e capacità. Gli ospedali sono luoghi pieni di rischi (biologici, radiologici, chimici, fisici) per i pazienti, ma soprattutto per gli operatori -spiega il direttore D’Amore, moderatore del tavolo dedicato a “Adattamento a scenari di impatto rapido e sicuro in un Grande Ospedale”-. La capacità dei nostri operatori di superare questi rischi è frutto della loro competenza e professionalità, nonostante siano spesso chiamati a lavorare in ambienti inadeguati. Ci sono nostri colleghi che devono conciliare competenze e protocolli del presente con mura e spazi pensati per essere illuminati con le candele. Per ammodernare le infrastrutture, è partito il piano straordinario per l’edilizia sanitaria. I fondi sono ancora in fase di erogazione e questo piano è stato istituito con l’art. 20 della legge finanziaria del 1988”.

“Una prova della professionalità e della flessibilità dei nostri operatori la abbiamo vista nella prima fase del Covid -ricorda D’Amore-. In poche ore reparti ordinari sono stati stravolti e modelli operativi sono stati ridefiniti in ragione di un rischio infettivo che pareva venire dall’800, ma che invece era contemporaneo, proprio come le nostre vite. Ma per combattere le infezioni ospedaliere abbiamo bisogno di ripensare spazi, procedure e metodi di lavoro. Sappiamo tutti che per un medico, che a volte ha pochi istanti per prendere una decisione, mettersi in discussione può essere molto duro, ma è un esercizio che dobbiamo fare”.

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