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A tu per tu con Donato Greco

Donato Greco
La lotta al fumo torna (fortunatamente) ad occupare ampio spazio nel dibattito pubblico. Per approfondire il tema abbiamo intervistato Donato Greco, Specialista in Malattie infettive, Igiene e sanità pubblica, che vanta una lunga esperienza sul campo. A lui abbiamo chiesto di aiutarci a rispondere ad una “semplice” domanda: è finalmente giunto il momento di dare più spazio alla prevenzione?

Il tema della prevenzione. In Italia investiamo (più di prima) ma non abbastanza. Questione di organizzare meglio le risorse o la coperta è davvero corta? 
No, la coperta non è corta. Fin dagli albori del nostro Ssn la prevenzione ha sempre rivestito politicamente un posto importante, almeno sulla carta. Basti dire che quasi tutti i bilanci annuali prevedevano una quota di almeno il 5% del Fondo sanitario nazionale (quello che poi è distribuito alla Regioni) destinato alla prevenzione. Ma è certamente un fatto che, in quasi quarant’anni, mai nessuna Regione sia riuscita a raggiungere questo 5%, perché purtroppo i fondi sono stati assorbiti da spese correnti ordinarie, in particolare dagli stipendi. È poi noto che negli anni la maggioranza delle Regioni italiane è stata interessata dai piani di rientro a causa degli enormi debiti accumulati. Purtroppo la prevenzione e la prima cosa si taglia. E la seconda è la ricerca.

Fare di conto è sempre molto complesso (soprattutto quando la molteplicità di fattori è così ampia) ma la soglia minima auspicata è indicata da molti nel 10% del Pil, le sembra ragionevole?
Per parlare di investimenti occorre discutere prima di tutto di strategie. Dal duemila in poi, l’Italia produce sistematicamente i suoi piani nazionali di prevenzione, uno dei quali è chiaramente in corso, dove opportunamente indica le strategie utili. Ma qui occorre fare una riflessione di fondo. La prevenzione, come è noto, si divide in tre grandi campi: primaria, secondaria e terziaria. La rendita più grande è senza ombra di dubbio quella offerta dalla prevenzione primaria (Se si dissuade un ragazzo dal cominciare a fumare, il guadagno – in termini di efficacia– è immensamente superiore al far smettere un anziano). Però purtroppo la prevenzione primaria non paga a breve, e il risultato degli sforzi è verificabile solo nel lungo periodo. Spesso passano anche decenni (come nel caso del ragazzo che non fumando oggi riduce la sua possibilità di ammalarsi di patologie correlate nel corso di tutta la vita, ndr). Più tangibile invece l’impatto di quella secondaria laddove gli screening, ad esempio, riducono l’incidenza dei tumori e il riscontro è immediato. Lo stesso dicasi per la terziaria che si occupa di prevenire le complicanze degli ammalati, i cui risultati sono riscontrabili in tempi brevi. Fatto il quadro però, occorre dire a chiare lettere che la prevenzione dovrebbe essere vista come investimento e non come una spesa, ma fin quando le Regioni e le Asl vivranno l’affanno per la quadratura del bilancio, addrizzare il tiro appare difficile.

Cercando di dare una definizione al Covid, l’autorevole rivista The Lancet ha parlato di sindemia, ossia di combinazione tra malattie croniche e virus. E, come se non bastasse, anche l’Oms ci sta dicendo di stare attenti per il prossimo futuro (verranno altri virus… forse più letali). Questo scenario (diciamo non incoraggiante) dovrebbe di certo indurci a intervenire su quelle cronicità diciamo ‘evitabili’ (e quindi investire maggiormente in prevenzione). Lei, che ha una lunga esperienza sul campo, crede che qualcosa in questo senso si stia muovendo?
Assolutamente sì.  Lo stesso Pnrr prevede investimenti cospicui per le strutture, per l’ordinaria organizzazione e anche per la prevenzione. Perché è bene ricordare come la prevenzione non sia soltanto un gesto sanitario, ma che anzi la gran parte di essa, mi riferisco alla primaria, si appoggia su altri settori della vita sociale e coinvolge altri attori (il Ministero della Salute, certamente, ma anche i sindaci, le amministrazioni e i dicasteri di economia e dell’agricoltura) che hanno in capo la responsabilità di promuovere stili di vita attivi, e sani. I quattro determinanti principali per le malattie croniche (fumo, alcol, attività fisica e dieta) toccano infatti più livelli di competenza.
Quindi diciamo che le azioni del Pnrr, in particolare quelle per la modernizzazione e per la digitalizzazione dovrebbero determinare un impegno sul territorio cospicuo verso la prevenzione.
La lezione covid è stata durissima, catastrofica, ed il conto più salato lo hanno pagato le persone affette da patologie croniche importanti (l’85% dei decessi ha riguardato persone con tre o quattro patologie croniche pregresse). Avessimo ridotto quella quota, avremmo ridotto anche complessivamente sia il numero dei decessi che le misure restrittive che tanto sono costate in termini economici e sociali.

Tra le tante battaglie c’è quella contro il fumo. Il 31 maggio è stata la giornata senza tabacco. Un tema che sembra essere inserito nell’agenda del Ministro Schillaci. Posto il fatto che siamo ancora nella fase embrionale della discussione, ma stringere ancora il campo delle restrizioni sembra una buona mossa per la salute. C’è secondo lei spazio, oggi, per questo ragionamento?
Certo che sì. L’Italia è stato il secondo Paese europeo ad approvare una legge che ha proibito il fumo negli ambienti sociali. E devo dire che questo ha portato dei risultati significativi. Gli infarti, così come il tumore al polmone, sono diminuiti in maniera consistente e continuano a diminuire. (fanno eccezione purtroppo i giovani e le donne che rappresentano fasce di popolazione in cui risultati sono ancora scarsi). Adesso poi abbiamo l’illusione che le sigarette elettroniche possano aver risolto il problema, ma non è così. Sicuramente riducono il catrame delle sigarette, ma non si riduce l’assuefazione. È quindi assolutamente il momento di aprire una stagione nuova di lotta al fumo, che ricordo conta ancora almeno ottantamila morti all’anno nel nostro Paese.

Certo i numeri sono importanti, vanno ricordati, ma resta come lei stesso ha citato una larga fetta di popolazione che non si lascia ‘convincere’ (o meglio spaventare) da questi numeri.  Quale può essere la strada maestra per sbloccare la situazione: investire di più in campagne di sensibilizzazione oppure ripartire dall’educazione nelle scuole?
Tutte due le cose, certamente, ma se guardiamo all’esperienza passata vediamo che fino a quando non abbiamo approvato una legge, tutte le campagne di informazione sui rischi del fumo non hanno sortito grandi effetti. L’informazione da sola non ce la fa (e lo stesso si può dire per l’informazione che mira a promuovere le altre abitudini del viver sano come la buona alimentazione o la riduzione del consumo di alcol). Bisogna quindi puntare sulla accoppiata provvedimenti e educazione. Questa è la strada vincente. Quindi, tanto per fare un esempio, la limitazione del fumo anche negli spazi pubblici e nei parchi, cosa che è in attuazione già in alcuni paesi europei, non sarebbe di certo una misura sbagliata.


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