
La politica riscopre la sanità. Capita, di tanto in tanto
di Giovanni Monchiero*
Le modalità sono sempre le stesse: l’opposizione accusa il governo di spendere troppo poco, la maggioranza non nega, ma non da.
Qualche settimana fa il ministro Schillaci aveva proposto di aumentare di 4 miliardi il Fsn dal Ministero delle Finanze (unico luogo di potere governativo reale fuori da Palazzo Chigi), gli hanno fatto sapere che ben difficilmente sarebbero arrivati a 2. E il dialogo si chiuse lì.
Attorno al tema della sanità sembra coagularsi la liquida minoranza. Calenda propone di portare il Fondo Sanitario al 7% del PIL, mentre il documento di programmazione economica prevede che per l’anno in corso si attesti al 6,7 per poi scendere, nel 2024, al 6,3.
La richiesta costerebbe, nei due anni, una ventina di miliardi. Sono tanti. Ma l’ultimo rapporto di “Crea Sanità” quantificava in 40 miliardi l’anno l’onere necessario per adeguare la spesa per il personale (numero di addetti e stipendi) alla media europea.
Il guaio è che nessun governo si mai posto il problema di riportare la spesa sanitaria pubblica pro- capite a quella dei nostri vicini per la semplice ragione che i soldi non ci sono. Sul tema, la politica darà vita al solito gioco delle parti, con toni variabili dall’astio alla condivisione, ma con scarsa efficacia pratica.
Per dare un senso al dibattito, il mondo della sanità – lo sosteniamo da tempo – dovrebbe contribuire con radicali proposte di riorganizzazione che favoriscano l’evoluzione del sistema verso forme innovative e più efficienti di assistenza.
Tacciono i promotori del nuovo. Si odono solo generici allarmi, rivendicazioni di categoria e qualche vecchio slogan che fa consenso e non impegna. All’atto del suo insediamento il Ministro si lanciò in un “ridiamo la sanità ai medici” già in voga, presso qualche sindacato, ai tempi in cui lui frequentava le medie. E venne avvolto dal silenzio.
Riemerge anche una ricorrente lettura negativa del rapporto fra la sanità pubblica e i produttori privati. Leggo, da qualche parte, che il finanziamento pubblico vero e proprio sarebbe solo di 102 miliardi perché gli altri servono per il privato convenzionato. Corollario: i privati sottraggono risorse alla sanità pubblica in una logica di privatizzazione del Ssn.
Osservo che, parlando di Ssn, privatizzazione è sinonimo di soppressione e che la sua finalità è garantire l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini. Finanziare adeguatamente le strutture pubbliche (ospedali, Rsa, case ed ospedali di comunità) è uno strumento utile, non il fine. Se – e sottolineo se – il privato riesce a garantire la medesima qualità a costi inferiori, perché non servirsi di lui ? Certo, si pone un problema di autorevolezza (e, aggiungo, correttezza) della committenza pubblica, ma bisogna migliorare la capacità di governo del sistema, non stracciarsi le vesti. Sono, peraltro, convinto che non basterà perfezionare i rapporti con i privati per salvare il Ssn che richiede, invece, una rapida e radicale riforma.
Ma le posizioni ideologiche, le lamentele, le rivendicazioni di parte, le pur fondate richieste di risorse economiche, non sostenute da una visione d’insieme, fanno pensare alle grida confuse di naviganti nel mare in tempesta.
Se hanno smarrito la bussola e non riescono a riparare il timone, non gli basterà invocare salvezza per evitare il naufragio.
*Editorialista di Panorama della Sanità